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PARLIAMONE 2014

Questo non è un vero e proprio blog, nel senso che non si instaurano discussioni circolari e chiuse. Non è neanche un forum però. Qui si scrive dopodichè tutti vedono tutto. E si replica alla stessa maniera. E' una semplice questione di forma, lo so, ma è importante. Purtroppo, e lo dico con sincerità, i messaggi sono moderati percui c'è una certa latenza tra la vostra spedizione e la successiva pubblicazione di un messaggio. Il male è da sempre presente sulla rete, e i comportamenti deviati con esso. Portate pazienza. E' necessario.

>>torna a casa...


Fine 2014, inizio 2015
spedito da: Andrea
Data: mercoledì, 31 dicembre 2014 - ore 19:56


Entro a gamba tesa quest'anno, senza fronzoli.

Cose da portarsi dietro del duemilaquattordici (e che vorrò tenermi in eterno):
I miei quarant'anni, con tutto il corredo attorno (in particolare la panchina sul Tamigi).
Mia nipote di due mesi.
Gli amici che continuano a starmi accanto pure quando mi trasformo in Mr. StronzHyde.
La mia famiglia.
La carovana di Italia giallabianca.
I rapporti d'affetto recuperati e poi persi.
Una persona che sale meritatamente su un palco.
I miei colleghi.
Un pranzo con persone eccezionali.
Una cena con persone eccezionali.

Cosa da lasciarsi in-dietro del duemilaquattordici (e che purtroppo si riproporranno):
La battaglia delle battaglie di un mio amico di quattro anni (ancora in corso).
L'idiozia di parte della popolazione italiana.
I rapporti d'affetto recuperati e poi persi (no, non è un errore di ripetizione).
Una persona che se ne è andata ingiustamente con la quale avrei dovuto parlare.
Le chiamate a vuoto e i messaggi ignorati.

E quest'è.
Il resto è, veramente, superfluo.
Auguri di un buon anno nuovo.

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Natale 2014 (finiamo in bellezza, rilassati come non mai...)
spedito da: Andrea
Data: mercoledì, 24 dicembre 2014 - ore 19:17


La situazione è, inutile che la approfondisca pure io, difficile (tanto per andarci leggeri). Eppure il Natale sopraggiunge, ci investe, inesorabile, imperterrito e ci trascina via con tutto il turbinio di bontà precotta e stantia; come se ci servisse soltanto oggi per riunirci in famiglia ed essere "più buoni", come a dire: il resto dell'anno stronzaggine a manetta che tanto arriva il Natale e potete frenare e rifarvi. Fino al giorno dopo s'intende. Intanto però, le tradizioni ci schiacciano chiedendoci il dazio ed io non mi sottraggo anche perchè la usuale chiacchierata con Giggino (quella solita della vigilia a pranzo con la pizza eccetera...) si è rivelata più "densa" del previsto (per non usare il termine "pesante" sennò poi sono sempre il solito). Il tema di quest'anno è: "più buoni un cazzo" mutuando numerosi slogan in giro per la rete ma non solo. Lo spirito del Natale è per i credenti onesti e autentici, per gli altri, tra cui il sottoscritto, non prendiamoci in giro, è il disco verde riconosciuto per abboffate epiche dai contorni del mito, con sfilacciate oniriche e allucinogene. Epperò, in tutto questo, vanno in scena i soliti teatrini che, stavolta, non si possono proprio ignorare. E allora, quando veniamo umiliati non dovremmo mai dimenticare le nostre ragioni, (intendo, quelle che sono causa dell'umiliazione di cui sopra) anche se ci sentiamo dei derelitti, anche se siamo (ingiustificatamente) depressi e vorremmo solo che un Dio pagano ci pisciasse via in un altro universo perchè, in fondo, abbiamo umiliato anche noi, questa l'orrenda verità. Così, tra un prendi e un dai, abbiamo conversato sui rapporti, così dire, "opportunisti" cioè quelli che hai modo di ricordarti che ci sono quando la controparte ti tira in mezzo con messaggini a gamba tesa o soltanto quando il loro universo si dimentica di metterli al centro. Allora tu servi, perchè devi dire loro la parola che vogliono sentirsi dire, per carità di Dio, e perorare la loro causa persa nel tentativo di donargli nuove prospettive lungo le quali proseguire il cammino. Dopodichè, a intervento finito, rientrare nei ranghi e tenerti buono fino alla prossima. Beninteso, non rompendo le palle nel frattempo. E allora, l'augurio che facciamo a queste persone è che il loro buon momento duri il più possibile, perchè no, per sempre anche, in modo tale che mai debbano ricordarsi di noi ancora. In questo, il mio interlocutore odierno era molto più soft, invocava i rapporti umani che non sono tutti della stessa profondità, che le cose cambiano e questa è lezione di vita e via tutto il resto. Io invece mi ci faccio un fiocco con gli zebedei e voglio rimanere bello incazzato con questi mentre il buono che ho, me lo tengo per i familiari e per tutti quegli amici che invece sanno anche farti uno squillo alle volte per chiederti anche solo come stai, e non stare solo a pensare ai propri cazzi punto e basta. Qualunque cosa accada a se stessi e alla vita tutta. Ma questa non è materia da social n'è vero? E allora sediamoci a tavola e cerchiamo di limitare i danni, in tutti i sensi. Buon Natale.

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Maledetto network...
spedito da: Andrea
Data: sabato, 13 dicembre 2014 - ore 17:13


Mi mancano le chiacchierate con determinate persone: le loro intuizioni, le loro convinzioni, il meccanismo perverso per il quale non siamo spesso in grado di tollerare l'altro, metterci sul serio dall'altra parte ma davvero però, non solo per un esercizio retorico. Il sale del confronto, appoggiato su un pianale di rispetto che spesso è troppo fragile. Così sovente si rompe e tutto cade giù. Eppure darei l'impossibile per poter ritrovarmi dinanzi quelle persone anche solo per una volta ancora, sentire cosa avrebbero da dire sulla mia vita, su quello che sto facendo e su quello che vorrei fare. Per fortuna, ce ne sono ancora tanti con cui ancora mi misuro oggi. Ma in questo istante, il pensiero è per tutti quelli con cui non ho più possibilità di farlo e maneggiare questa riflessione è cosa complessa e straordinariamente malinconica.

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Di domenica pomeriggio (e ancora)
spedito da: Andrea
Data: domenica, 23 novembre 2014 - ore 17:47


Farsi chiacchierate come quelle di ieri sera o di oggi, dinanzi buon cibo, con persone di spessore che non si trovano così spesso, muoversi come le pedine di una scacchiera facendo un particolare gioco stile battaglia navale, incasellandosi tra eventi più o meno di formazione, bè, lasciatemi dire che fa bene all'anima. Per carità, uno come me alla festa non c'è mai arrivato a ben vedere ma non è bello vedere persone cui si vuole bene uscire dal locale da sole, non più accompagnate come all'entrata. Chissà che passa nella testa di questa generazione, di cui faccio deplorevolmente parte, nel non sapersi mantenere affetti e traguardi, sempre ad andare oltre quando, probabilmente, un oltre non esiste. Che tristezza prenderne coscienza, non poter far nulla per cambiare tale atteggiamento, mentre le domeniche pomeriggio scivolano via schiumando con la rabbia dei sopracitati. Eppure mantenere sarebbe stata e, sarebbe, la scelta più opportuna, soprattutto a lungo termine. Quanta saggezza sprecata nel non aver afferrato il senso al momento giusto, non essere stati pronti quando la felicità ci si è palesata condensata e compressa in un punto troppo piccolo per potersene accorgere. E intanto riprendiamo a cercare con sempre minore entusiasmo, come una candela che muore nel buio di una galleria senza uscita. Ci hanno fottuto perbene mi verrebbe da dire; onore e gloria a chi è rimasto su un piano più pragmatico. Al momento, il vantaggio sta a voi. Andiamo avanti che la partita non è ancora finita, anche se alcuni di noi in campo non ci hanno mai neanche messo piede.

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Una sera, anni fa.
spedito da: Andrea
Data: domenica, 26 ottobre 2014 - ore 20:1


Tanti anni fa, seduto nella semioscurità di un sedicente pub di provincia mentre sospiravo pensando ai fianchi di una donna che non sarebbe mai stata mia, lessi distrattamente sul retro di un menù plastificato:"non esistono sconosciuti al mondo ma solo persone che non hai ancora incontrato". E questo è vero, penso adesso che mi viene in mente mentre schizzo sui binari a trecento orari, in un punto non meglio precisato dell'appennino. Di un vero assoluto.

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Benvenuta
spedito da: Andrea
Data: mercoledì, 22 ottobre 2014 - ore 21:24


Così alla fine è arrivata. Eravamo tutti stipati lungo la strada, alla fine, polverosa e arsa con campi tutt'intorno: io e i miei parenti, mia sorella in testa ovviamente, il marito, mio padre mia madre e mio fratello, gli zii, i cugini e tutto il parentado insomma. Eravamo lì da un bel po', ognuno intento a concentrarsi sui propri pensieri, tutti delicati e un po' ansiosi, sicuramente felici in fondo, di quella felicità che si centellina lungo il corso della vita, che si usa solo in certi momenti. Il suo arrivo è stato il punto finale per poter dischiudere quella gioia. Prima è stata una nuvola di polvere all'orizzonte ma dovevamo ancora attendere; da dove eravamo noi la strada andava dritta per chilometri quindi bisognava aspettare che l'effetto ottico svanisse e che lei si concretizzasse davanti i nostri occhi. Ma alla fine è arrivata. E quando si è fermata lì, davanti i nostri occhi, a nessuno pareva un po' vero; troppa attesa, stipata nel tempo, strappata al destino che sembrava avverso, nervi stirati dall'attesa e soltanto tanta fede, per chi credeva, certezza e tenuta della linea per chi, come me, andava di ragione. Lei era lì e salutava tutti e tutti eravamo un po' commossi, perchè scioglievamo le riserve e ci lasciavamo andare alle prospettive, mentre lei diceva "ciao" e si presentava. Eppure io guardavo mia sorella, che le aveva preparato il viaggio, l'aveva guidata fino a lì, sapendo solo lei l'itinerario, la strada che la sua creatura aveva percorso in maniera più o meno placida fino al nostro cospetto. Quanta ammirazione in quella piccola donna, mia sorella, tutta quella determinazione che porta dentro di sè, la dimensione semplice del suo vivere, così quotidiana, così rassicurante per chi, come me, non sa mai dove sta mettendo i piedi e cammina in equilibrio tutte le volte. "Sono a pezzi", pensavo mentre mi commuovevo anch'io di fronte quell'arrivo, ma ancora e di più per mia sorella, la sua espressione di fatica dopo tutta quell'attesa, la sua pancia che cresceva nell'attesa dell'arrivo, la voglia di vederla contenta senza riserve per una volta tanto. Voglio un bene dell'anima a mia sorella, penso mentre la sua creatura finalmente si dedica a lei dopo aver salutato tutti. Io non c'ero, all'arrivo, quello che scrivo me l'hanno raccontato e perciò sono felice ma anche un po' triste. Fa nulla, fra poco andrò anch'io a salutare l'ultima arrivata. Basta un treno, tutto qua.
Intanto benvenuta Claudia, lo zio già ti vuole bene senza che tu neanche mi abbia ancora visto.

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Un altro saluto.
spedito da: Andrea
Data: sabato, 18 ottobre 2014 - ore 20:46


In settimana sono stato a salutare, per l'ultima volta, una persona che se n'è andata prima del tempo. Ancora una volta, desiderando che fosse l'ultima, come sempre, ho preso un treno alla mattina, sono arrivato in una città umida e slavata, i soliti afrori che odiavo già ai tempi e ne ho ripreso un altro nel pomeriggio. Come sempre accade, simili occasioni si trasformano in grotteschi rendez-vous, indesiderati, tutti spinti e addossati dalla nera circostanza, soprattutto perchè questa persona se n'è andata senza poter aggiustare. Questo pensavo, mentre tutti tenevano a freno i livori e la sconvenienza di rompere il silenzio con parole inopportune, non bisognerebbe mai andarsene senza aggiustare. Per questo mi è dispiaciuto per questa persona, perchè non ha potuto farlo, aggiustare intendo. E sebbene fossi arrabbiato anch'io con questa persona, per motivi sottili e didascalici, sono andato a salutarlo perchè, suo malgrado, mi ha accompagnato per un periodo importante della mia esistenza. Ma su tutto, mentre scalpitavo per andarmene e tornarmene da dove ero venuto, lasciando tutta quella congrega che sembrava uscita da un film di Muccino, ero sicuro che se avesse potuto tornare anche solo per un secondo lo avrebbe fatto, aggiustare intendo.
Non è bello, si direbbe in questi casi, andarsene così, in generale, ma ancora di più, senza poter tentare di riparare e riprendere a dormire senza sentirsi lacerarsi dentro.
Ciao Gilbè.

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Una storia
spedito da: Andrea
Data: giovedì, 9 ottobre 2014 - ore 23:11


In principio era il crinale scosceso di un boschetto di pini, a terra un tappeto di aghi, odore di resina nell'aria, cielo di un azzurro d'altri tempi. Una bambina con una bambola in mano che sorride e condanna senza saperlo. Poi una stanzetta buia, madre curiosità e un videogame degli albori, una domanda innocente e una scoperta assoluta. Dopodichè è stata una casa al mare della costa cilentana, una spazzola nei capelli, un rifiuto frettoloso e popolare, salsedine ovunque, sabbia e pelle irritata. Ancora, passi nel buio, un parco comunale, il freddo del metallo della panchina sotto le gambe, denti che si urtano, sorrisi e poi lacrime, il fiato condensato nelle fughe a rotta di colla dalla collina al mare buio e cattivo in fondo. Si cambia in un nulla e sono stanze sconosciute, candele sul pavimento, chitarre e una ragazza in un angolo, capelli corvini e una voglia matta di cantare. Un tempo ancora e ci sono ancora chitarre, stavolta tetti, la musica che stria la notte e solleva emozioni, poi gite fuoriporta, paure nuove e sconosciute, commozioni inaspettate ed uno strappo nell'aria, deciso e pulito. Un passo oltre ed è un viale di sanpietrini, un braccio appoggiato, annunciato, un sorriso, muscoli tesi e strane vibrazioni, un divano in una sala in penombra, un gatto sulla schiena, poi l'oblio e poi più nulla. Si scivola, veloce, sulla fretta di una coincidenza che porta su una terrazza, il buio che ammanta, attese pesanti e crepe che sanno di uno spaccato troppo violento, laddove neanche un treno lungo centinaia di chilometri può richiudere. Un battito di palpebre ed è in mezzo ai monti, una storia che parla di paesi lontani, gente che annuisce, fogli di carta, quadri su un tavolo e una danza delicata e soave. Il pieno che avvolge, mura che iniziano ad un'esperienza di una bellezza straziante lungo direzioni spostate troppo ad est. Ancora un tic ed è un bar, un ragazzo che gira intorno, birre stanche e parole lanciate in aria, raccolte e riordinate; una moto, mani intrecciate sulla pancia, una curva, il nome di uno scrittore, due pezzi di metallo che si saldano, dolci di pasticceria conditi di assurdo che si fanno realtà dinanzi un film dell'orrore, carte di un fast food sul tavolo e un letto che sostiene la fine. Flash, si apre una porta ed è un albergo, un'ombra sul muro, una danza in silenzio, al di là della finestra lo stesso mare anelato in bicicletta anni prima e una montagna di ricci lasciati fuori dalla stessa porta. Il tempo avanza, il viaggio porta nella periferia di una città eterna, un balcone anonimo, passi felpati, forme morbide, una sigaretta verso il cielo, risate, un dvd e cibo nel centro commerciale, un quadro sospeso sul nulla, l'inconsistenza del momento, la fede nella percezione del contrario, una telefonata che porta dall'altra parte. Salto in avanti, a ridosso, chiacchiere scostanti, stilettate dialettiche, senza voltarsi, di fronte un concentrato di umanità che sa di tempi non nostri, traverse, locali, strade strette, mare, generosità, vai e vieni e vai ancora e rivieni e poi solo vai, con un angolo che chiude la prospettiva e stende il silenzio.
Un silenzio che è attorno ancora adesso.

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Everybody needs a place to think
spedito da: Andrea
Data: domenica, 7 settembre 2014 - ore 12:9



Se fossi un fotografo professionista questa immagine sarebbe un "progetto" o un "concept" o un'altra dicitura altisonante che soggiace a chissà quale afflato creativo imperscrutabile. Invece la cosa è andata così:
Nel'agosto del 2004 mi trovavo a Londra per un periodo di tre settimane, appena compiuti trent'anni, parcheggiato in una casetta di East Finchley a completare il mio secondo romanzo "Senza Fine" (che scritto così suona maledettamente "vissuto" ma in realtà anche no) seduto alla scrivania della stanzetta del mio amico Paolo che invece lì in quella città ci lavorava. Scrivevo tutto il giorno, aspettavo Paolo come il miglior compagno-convivente gay (per inciso finimmo in un bar omo a Chelsea senza la minima idea di dove fossimo andati a bere birra) e alla sera uscivamo per svagarci un po'. Quell'estate fu un momento cruciale della mia esistenza per svariate ragioni non necessariamente entusiasmanti; un periodo che mi avrebbe cambiato le traiettorie di vita in maniera completamente inaspettata. In uno dei nostri vagabondare, nell'ultimo giorno di permanenza pare di ricordare, Paolo mi scatta la foto di sinistra mentre sono seduto su una panca spalle al Tamigi dove avevamo consumato (o avremmo) una delle nostre proverbiali "chiacchierate" sulla vita, i progetti e tutte quelle cose lì (per dirla alla Ligabue). Tanto per metterci il carico da undici, la panca recava affissa una placchetta di metallo con su scritto "everybody needs a place to think", fate un po' voi.
Bene. Dopodichè, quest'anno, luglio 2014, ho compiuto quarant'anni. Sempre Paolo, lo stesso amico Londoner a tempo determinato (nel frattempo rientrato in Italia), mi fa un regalo "a sorpresa" organizzando un weekend londinese nel quale avremmo pedalato lungo le strade della capitale britannica, attraversando luoghi più o meno significativi delle vite di entrambi. Non sto qui a descrivere la tre giorni e tutto il resto: dico solo che, resomi conto della decade che intercorreva tra quel periodo scrivano e il weekend nel quale stavo sudando pompando sui pedali guidando a sinistra, mi è venuta l'idea che vedete in alto. Un'altra foto, sulla panchina che non è la stessa se non per qualche metro più in là, con la stessa placchetta di metallo ed io, nella stessa posizione, più o meno. Pensate che in valigia avevo la stessa polo di sinistra e gli stessi occhiali ma erano in hotel e l'idea andava realizzata in quell'istante (sì, lo so cosa state pensando ma non mi piace buttare certa roba ok?).
La foto di sinistra m'è sempre piaciuta, un po' perchè sto bene con la mia tipica espressione incazzata panteistica (ed è raro che io venga bene in foto, dove su "bene" si potrebbe aprire una tavola rotonda infinita) ma soprattutto per il significato sublime che quella immagine porta con sè, tralaltro su diapositiva, dato che nel 2004 le macchine digitali erano ancora inaccessibili ai comuni mortali.
Aver potuto bissare lo scatto, devo dire con un risultato estetico inferiore a dieci anni fa, mi ha entusiasmato (per quello che mi compete) pensando a tutto quello che queste due foto raccoglievano in termini di tempo vissuto. Troppo e variegato e straordinario e terribile allo stesso tempo, insomma un decennio di vita vissuta a petto in fuori a prendere mazzate e a darle allo stesso tempo. Ed ho pensato che condividerlo sul network fosse proprio nel significato reale del "Facebook", un annuario appunto, di foto profilo a memoria propria e dei posteri.

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Domanda
spedito da: Andrea
Data: giovedì, 28 agosto 2014 - ore 18:44


E la strada? Che fa adesso la strada che noialtri abbiamo smesso di solcarla con un intento più o meno indagabile e, parrebbe, nobile? Ci ha lasciato fare, come sempre, s'è presa un po' di noi km dopo km e c'ha permesso di liberare le nostre energie, scatenare le nostre forze, sgretolare le nostre debolezze. La strada ci ha reso più forti. Ritorneranno le piogge, il gelo dell'inverno aprirà altre crepe in quegli asfalti lisi delle strade secondarie, altra vita ci scorrerà sopra mentre noi saremo da qualche parte, al chiuso, ricaricando il nostro desiderio di libertà. E ci verrà in mente quel particolare cartello stradale o quella curva arrugginita di guardrail perché quando li abbiamo doppiati stavamo pensando a qualcosa a noi caro, per noi fondamentale.
Martini, appena scomparso, diceva della bicicletta che era stupendo il fatto che la mente fosse libera di pensare durante la pedalata. L'abbiamo fatto, di certo, rimanendo aggrappati ad un concetto costruttivo, che ci migliorasse, ci rendesse uomini ancora e di più consapevoli.
Ma la strada è ancora là. Ci aspetta, suppongo, fino alla prossima chiamata.

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Italia giallabianca 2
spedito da: Andrea
Data: martedì, 5 agosto 2014 - ore 7:41



Qui si raccolgono gli scritti di IGB2 per chi non ha una pagina FB e non ha potuto leggere neanche la pagina pubblica di FB su IGB.
Poco male: qui trovate tutto, niente escluso.
;-)

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Menouno
spedito da: Andrea
Data: lunedì, 4 agosto 2014 - ore 15:42



Siamo sul treno per Torino, seguirà quello per Bardonecchia. I ragazzi sono carichi e io pure. Quest'anno siamo patinati, da professionisti del cicloviaggio, troppo scientifici, pragmatici, essenziali. Completamente votati alla strada. Sono sicuro che non appena avremo le ruote in strada, ci scuoieremo di questa pelle che non ci appartiene. Dopodichè sarà come sempre e di piu' - come sempre ;-)
Quest'anno abbiamo fatto molto meno chiasso rispetto alla passata stagione ma anche questo è sintomo dei tempi e del momento. Non ci interessa piu' stare dietro a filosofie trite e ritrite, piuttosto vogliamo la strada, mettere le ruote sull'asfalto, esaltarci privatamente portando in scena i nostri demoni personali. Quest'anno IGB sarà un enorme esorcismo di tutto quello che ci disallinea con la serenità del mondo, di quel poco che ne resta ovviamente. C'è chi pedala per un tassello di conoscenza in piu'; qualcun'altro per riscattare se stesso; qualcun'altro per "preparare" se stesso per un futuro migliore, con molto piu' senso rispetto ad oggi.
Siamo viaggiatori in bicicletta, cerchiamo affetto, qualche forma proprietaria di amore lungo la strada: io e i miei compagni di viaggio siamo ispirati, tanto basta. Vogliateci bene, regalateci un sorriso, ci basterà. Ancora una volta km dopo km, per migliorare prima di tutto come uomini, poi come pedalatori. Questo il giorno prima di partire, il solito -1. Da domani staremo a vedere. Dalla campagna piemontese, in corsa dentro un treno, Andrea De Gruttola per Italia Giallabianca2.

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Su un treno
spedito da: Andrea
Data: domenica, 20 luglio 2014 - ore 17:54


C'era un desiderio definitivo nel suo sguardo. Quell'attesa nei suoi occhi afferravano senza una reale via di scampo. Un movimento morbido viaggiava a onde nelle vene e nulla che non appartenesse al mondo reale, in quel momento, lì, stretta e sospesa tra la gente, avrebbe avuto ragione d'essere. Se qualche molecola di felicità avesse danzato nell'aria, nessuno ne sarebbe stato immune perchè lei era totalmente priva della consapevolezza del suo dono. Ed è per questo che, in fondo, neanche sapeva di far male. Ma cosa non avrebbe potuto attirare attenzione, chi sarebbe stato così distratto mentre l'universo tramava nell'attesa che qualcuno ne svelasse il suo agire. E invece lei era sempre lì, leggera, vestita di blu, a guardarsi intorno appoggiando delicatezza su tutto e tutti. Dall'altra parte del mondo la distanza era comunque troppa per tentare di afferrare. Così, come sempre, tutto scorreva sotto, lasciando il tracciato corroso e commosso per un'ideale che come tale rimaneva e che nemmeno la forma più onesta del desiderio avrebbe potuto salvare. Il muro era solido e dall'altra parte lei continuava ad attendere, fantasticando chissà quali emozioni, chissà quali desideri. Mentre i paesaggi andavano e il cielo rimboccava le coperte ai sogni.

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Tanti auguri.
spedito da: Andrea
Data: mercoledì, 16 luglio 2014 - ore 6:27


Gli anni (sono) struggenti, citando (e distorcendo) Bevilacqua, non mi riferisco soltanto a quelli di gioventù ma a tutti, indistintamente, ovviamente soprattutto a quelli passati.
Lo chiamano giro di boa, vale a dire: ne hai ancora quanto già fatto. Oddio, non è che sia una prospettiva entusiasmante se la coscienza del senso ti è chiara in mente, il panico allunga le braccia sempre di più oppure sei tu che ti ci avvicini perchè i muri della tua stanza si stanno stringendo l'uno all'altro. Allora si tira un bel respiro e ci si fa calmi per riflettere e prepararsi una volta che la barca punta nella direzione opposta: mi piacerebbe pensare che sarò a tanto così nei prossimi anni agli eventi simmetrici vissuti nel passato, così, tanto per dare un'occhiata; e per favore non fate quella faccia da "si guarda avanti e basta" perchè 'sta stronzata non regge più (e mai ha retto). Cerchiamo di essere onesti con noi stessi per una volta tanto. La presa di coscienza del proprio essere presente non vuol dire necessariamente un punto negativo emotivo: per quanto mi riguarda significa sapere cosa fare al meglio di ciò che è l'attuale, per non parlare del futuro. Chi sa guardarsi indietro ha una visione completa del proprio andare e non una stupida tensione ottusa verso un divenire acritico. Si pulisce e si affilano gli obiettivi in modo da non perdere più tempo in puttanate (ci sarebbe da citare Sorrentino attraverso Gambardella ma non è che bisogna arrivare ai sessanta per capire certe cose...). Invece a me piace riportare la soddisfazione di quanto fatto finora, le cose buone e quelle brutte per carità perchè per le prime c'è orgoglio mentre le seconde non le puoi cancellare e allora avanti così.
Mi aggancio sul finale ad una citazione che mi ha colpito molto per l'eleganza stilistica con la quale è stato centrato un argomento per me questione di sopravvivenza quotidiana. E diamine se il tizio non è bravo.
"Sto bene da solo, ma non sono un solitario.
Cerco gli altri per scelta, non per timore.
E scelgo con chi stare.
Perché siamo fatti per stare con pochi."
E con questo, auguri al sottoscritto.

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Montefusco reloaded.
spedito da: Andrea
Data: domenica, 29 giugno 2014 - ore 1:17


-Io per te sono come la neve- disse lei spaccando il silenzio compatto, lì, dinanzi quel panorama per lui sacro.
Il ragazzo si voltò, strinse gli occhi come ad inquadrarla meglio. Una brezza si sollevò a muovere le foglie degli alberi, scompigliare capelli, soprattutto quelli di lei, lisci e senza peso, mentre teneva stretta la slim in verticale tra le dita, lo sguardo diretto all'orizzonte, perchè il concetto era tutto suo e di nessun altro.
-Puoi solo guardarmi cadere- continuò lei senza staccare lo sguardo dai profili delle colline dinanzi. Fece un tiro, sbuffò il fumo come fosse un istinto ancestrale.
-Già- fece lui, -se tentassi di afferrarti, il calore delle mie mani ti farebbe evaporare nell'aria.-
Lei si voltò, dolce e severa, ferma come uno scoglio nel mare. Abbozzò un sorriso privo di qualsiasi buon intento.
Lui la fotografò con lo sguardo, scese lungo il suo profilo, di nuovo quel fluire corrosivo nelle vene e il cuore a battere più sostenuto; lentamente chiuse gli occhi.
-Che stai facendo?- chiese lei senza una reale curiosità aggiunta.
Passò qualche secondo prima che lui li riaprisse sulla realtà.
-Mi concentravo ad assorbire il momento, credo che più di così non potrà mai essere.-
Lei abbassò lo sguardo per un attimo come a cercare qualcosa che le era caduto; rialzò lo sguardo fiera, fece ancora un tiro.
Lui sospirò e riprese a fissare la valle dinanzi.
All'orizzonte, nuvole nere fecero capolino gravide di pioggia.

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Il Carbonio regola tutto.
spedito da: Andrea
Data: lunedì, 9 giugno 2014 - ore 0:9


Per secoli si è andato dietro l'idea che il mancato incastro di sentimenti fosse qualcosa di innaturale, che andasse contro le leggi dell'universo. Ci si è appellati spesso alla malasorte come connotazione puntuale, negativa, qualcuno con più spessore dialettico ha invocato il fato altri semplicemente il caso, imparziale esecutore. Oggi, più pragmaticamente, si parla di "chiusura" che è una parola dai mille significati; dalla terminazione di un evento, di un percorso che ricongiunge punti di partenza e di fine, al confinio di qualcosa in una porzione di spazio limitata e ben definita. Soprattutto, alla volontà di mettere fra se' e il resto del mondo, umano s'intende, una barriera protettiva e ben architettata. Complessa, affastellata di sovrastrutture arzigogolate per difficoltà di carattere o per obiettivi a lungo termine da missione impossibile: alle volte anche per conclamata ignoranza di ciò cui andiamo in cerca. Tutto questo per non incastrare e farsi incastrare, nel senso di sopra, perchè l'emancipazione conquistata a suon di crisi e apparenti salvacondotti ci ha reso altro che indipendenti e forti, bensì fragili come il più fragile dei cristalli. Così qualcuno fa il diamante, cercando di tirarsene fuori ma un punto ce l'ha, difficile da trovare, difficile da colpire nella giusta direzione e intensità, ma pur sempre vulnerabile ed esposto come gli altri alla possibilità di finire in frantumi. Non è più, come all'inizio di quest'era di solitudine tecnologica, un raro esempio che si faceva germe dell'epidemia odierna, bensì un tentativo ante-litteram di non farsi acchiappare dall'ondata di disperazione di questi figli ben vestiti, ben puliti e nutriti, ordinati e sognatori; figli che si muovevano e che si muovono tra altre onde di disperazione, senza più luci a tracciare rotte, senza più sogni a incollare anime. Così, si da il caso che gli sguardi di occhi lucidi dalla stanchezza, che ancora non sa di mutare nella disperazione di cui sopra, raccontino di come colpire il punto giusto di quel diamante, farlo sgretolare senza averne neanche avuto l'intenzione. Conta poco. Quello che conta, è che la polvere te la ritrovi ai piedi e capisci che qualcosa è andato storto. Ma non quando la vedi, già prima, prima ancora di pensare di vivere certe cose, prima di tutto. Le fronde di alberi sottili si muovono, indolenti, mentre il cielo slavato tenta di fare da sfondo. Una ragazza è seduta, composta al bordo di una panchina, come se dovesse dare un'esame. Un ragazzo è al lato, più scomposto, a braccia larghe e con uno sguardo che tenta di dissimulare saccenza ed arroganza. Invece lei è quella tranquilla, l'altro invece ha il fuoco in corpo, che ormai controlla come un mago di terz'ordine, che cerca di ridurre a rigurgiti interni roventi e corrosivi. Ecco come finisce la carriera di un diamante e se ne inizia una di grafite: sperando che il legno che la circonda possa proteggerla da tutto il resto, i denti di un bambino, le unghie di un adulto persino la lama di un temperino. In fondo, la differenza tra i due, sta soltanto nella diversa disposizione delle sostanze elementari che li compongono: cambiare la struttura dei nostri sentimenti può renderci incredibilmente resistenti ma altrettanto fragili, basta davvero poco.
Forse per questo che ci "chiudiamo", non ci interessa neanche capire da che parte potremmo finire in frantumi. Meglio rimanere intatti e puri sembrerebbe, senza che nessuno, però, abbia a godere di tutta quella luce.

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Una linea, un'ombra.
spedito da: Andrea
Data: domenica, 25 maggio 2014 - ore 17:13



E' stata, ed è, la perfetta metafora. Cerco ancora, dopo quasi quarant'anni, di stare su quella linea senza fare troppi casini, non abbandonarla mai, metterci le ruote sopra e tenere la direzione. Non sono sempre stato bravo, anzi, più d'una volta l'ho completamente persa di vista, talvolta semplicemente sbandato ma, questo importante, mai caduto. Se oggi, ancora dopo una vita, sono sempre ad inseguirla e fissare quell'ombra che mi appartiene, allora non tutto è andato perduto, perchè sebbene tormentato, in quell'infinito inseguire trovo la ragione del sentimento, la parabola di un'esistenza, l'abbraccio dell'instancabile voglia di ricerca, di comprensione del mondo che mi circonda. E di come la mia vita possa trovarvi spazio.
Non sono appassionato, non sono un "ciclista", io amo e odio un mezzo allo stesso tempo ed è l'eterna lotta tra questi due sentimenti che ne fa l'unica vera coerenza che io abbia mai avuto. Perchè, forse, un solo sentimento non basta per una vita intera.

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G.G.M.
spedito da: Andrea
Data: venerdì, 18 aprile 2014 - ore 18:52


Quando per gente come Gabriel arriva il momento di partire per sempre, chi resta dovrebbe cercare tra le cose del presente quelle costruite nel passato a quattro mani con lui, attraverso le sue pagine, i sospiri, le malinconie e i tuffi nella riflessione profonda. Che ci sostiene e ci migliora, tenendo bene a mente che la solitudine non è una condizione umana naturale ma solo un passaggio obbligato e scomodo verso una condivisione perfetta e consapevole.
Grazie mille Gabriel, grazie di tutto.

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Stanno arrivando e non avvertono di certo.
spedito da: Andrea
Data: domenica, 23 marzo 2014 - ore 18:20


Se è vero che la felicità esiste solo in forma di frammenti, allora non bisognerebbe mai disperarsi quando le cose vanno in pezzi. Con un po' di pazienza, quando tutta la polvere si sarà posata, quando il tempo avrà stabilito la giusta distanza tra voi e le vostre personali macerie, tornate indietro e provate a rovistare: butterete via la maggior parte ma, ad un'occhiata più attenta, qualche scheggia luccicherà più di altre, strappandovi un sorriso e lasciandovi una sensazione di rivincita netta sulle malefatte dell'esistenza. Oggi scappavo agile ai bordi di un aeroporto, con la mia bici, senza tensioni specifiche, per caso trovatomi lì durante un giro urbano, di quelli che quand'ero ragazzo non smettevo mai di fare e che adesso sono cosa rara, come oggi appunto. Il vento soffiava anche fin troppo fresco e sostenuto e gli aerei andavano e venivano. Scappavano anche i pensieri oltre ai metri di pista ciclabile sotto le mie ruote, le mie gambe rosse e ancora prematuramente stordite dai ritmi strappati di questa uscita pomeridiana; qualche volta sopra gli aerei, per andare chissà dove, con la bici nella stiva, altre volte a terra, come in quel momento, come tanti altri aeroporti ho lambito negli anni, a diverse latitudini e longitudini. Quest'anno saranno quaranta, di anni su questa terra, venti, di anni sulle strade di mezzo mondo. Gli ospiti iniziano ad arrivare ed io non sono così pronto ad accoglierli, per niente.

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Dublino
spedito da: Andrea
Data: venerdì, 28 febbraio 2014 - ore 0:9



L'ho presa bene, dico sul serio. Già mentre il driver mi portava al centro e sfilava lungo il Liffey e le luci della città mi dicevano che ero il benvenuto, qualcosa mi addolciva nel profondo. Mi diceva che andava tutto bene, nessuna ragione per cacarmi sotto. Dopodichè ho messo i piedi uno dietro l'altro su quei cubetti lucidi di porfido, in mezzo ai vicoli di Temple Bar e mi sono dato da fare: intendo a camminare e bere e cercare di mettere un po' in ordine mentre la pioggia veniva giù gentile, senza rompere. Tutto è delicato in questa città, ti cancella la verve violenta, liquefa la rabbia e predispone al pagamento dei debiti. Mai lasciarli in giro, mai pensare di potersi lasciare dietro le spalle un luogo, che tanto mai ci tornerai a saldare: e invece vedi? Eccomi qua, con tutta la mia esperienza di distruttore a ridare indietro e prendermi qualche carezza, più di pietà che altro, mentre lo Spire mi sovrastava e probabilmente mi pigliava pure un po' per il culo credo. Ma io niente, testa bassa e proseguire. Mattoni rossi ovunque, finestre quadrate e porte colorate; asfalto lucido che riflette luci itteriche che non illuminano nulla, mentre ancora unghiate rapide e caustiche: Trinity College e i suoi giardini, il Brazen Head, il pub più vecchio della città, classe 1198, dove ho tirato via dalla punta di un naso uno sbaffo di crema di Guinness e d'un tratto è già notte inoltrata proprio mentre mi avvito su quest'ultima immagine di un delicato che manco mi ricordo più che cosa significa. Tempo di tornare indietro. Alzo gli occhi al cielo plumbeo, un attimo prima di entrare nel taxi mentre il driver già mi chiede se mi sono divertito e ho tracannato abbastanza. Io penso che cosa ci sono venuto a fare qui, perchè le coincidenze mi ci hanno fatto rimettere piede che non doveva più accadere, come rimangono chiuse le porte di case abbandonate. Poi mi dico che, banale quanto si vuole, ma per ogni agire c'è un motivo. E allora entro in auto, il driver si volta indietro, mi rifà la domanda:
"Did you have your Guinness?" chiede retorico.
"Not enough mate" rispondo.
"Nanana that's not good" mi cazzea.
"I agree with you, so, show me the way".
"Sure" fa convinto.
E parte sgommando.

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SanV#2
spedito da: Andrea
Data: venerdì, 14 febbraio 2014 - ore 23:55


La stazione è sempre piena. A qualunque ora, tranne nella notte inoltrata; a quel punto gli spazi si fanno vuoti e il silenzio scende sui marmi e sulle vetrate opache di smog e polvere di ferro. Tutto ha una pausa, in un eterno ricircolo di esistenze a dipanarsi in quello snodo creato dall'uomo, fatto di metalli e speranze, addii e lacrime, fine e inizio di percorsi, metafora perfetta dell'imperfetta umana ricerca dell'andare. "Signore, scusi signore posso?" indica lei il posto a fianco di lui, sulla panchina di marmo.
Lui la guarda, educata e positiva, senza malizia, solo curiosità dipinta in volto. Giovane, forse non più di venticinque, chi può dirlo, trolley a seguito e sorriso bianco come il latte di alta montagna. Lui sospira, sereno, sposta il cappotto, le indica di sedere togliendosi il cappello, un borsalino fatto su misura, un gesto d'altri tempi.
"Grazie", dice lei e mentre siede lui alza gli occhi al cielo, verso le vetrate sozze che proprio non ci riescono oggi a contenere la luce del sole, così forte e inusuale per quella città. Un piccione grasso e appesantito plana insicuro da una trave puntellata ad un punto della stazione fuori dallo sguardo. Lui segue il volo dell'uccello per poi dedicare attenzione alla ragazza. Sa perchè ha chiesto di sedere; non è la prima, non sarà l'ultima. Lei finge di cercare qualcosa nella borsa, cercando di guadagnare tempo in un frangente che non lo richiederebbe; lui non deve andare da nessuna parte, come sempre da tanto tempo ormai. La gente sciama come torrenti di alta montagna, talvolta come fiume alla foce del mare. Brusii, stridii e fischi, l'intercalare degli annunci, la vita che va insomma. Finalmente, dopo qualcosa come una decina di minuti, lei prende coraggio.
"Ascolti, signore, posso farle una domanda?"
Lui si volta a guardarla dritta negli occhi e lei sembra trasalire.
"Ha visto vero? Tutti vedono al primo sguardo sa?" le dice precedendola con voce calma e profonda. I suoi occhi sono due pozzi scuri e senza fondo, con un luccichio potente sul fondo, lontano e impossibile da raggiungere.
Lei si aggiusta una ciocca di capelli dietro un orecchio. E' imbarazzata ma non intimorita, la curiosità la sta divorando da giorni ormai e, da buona giornalista qual'è, vuole sapere. Ma non per professione, o forse sì, dipende da quale storia quell'uomo abbia dietro. Non ha mai pensato fosse un folle o uno con qualche rotella fuori posto. E' stato l'istinto, lo stesso che la guida quotidianamente nella sua professione. Lui era ben vestito, mezza età, pulito, in ordine, con uno sguardo placcato di tristezza ma di quelle composte e severe, che non hanno più da temere nulla dal tempo. E soprattutto, tutto il giorno seduto alla stessa panchina e con un fiore in mano, una gerbera gialla con striature rosse sui generosi petali. All'inizio l'aveva appena notato, la mattina quando arrivava in centro per andare in redazione. E poi però lo aveva ritrovato al pomeriggio e talvolta alla sera. Impossibile essere una coincidenza. Aveva chiesto a dei suoi conoscenti che pure erano pendolari, di gettare uno sguardo alla panchina sul lato ovest e riportare se avessero visto lui, con il suo cappotto e il suo fiore in mano. E così era stato. A quel punto aveva deciso di passare all'azione.
"Io...sa, prendo il treno tutti i giorni per venire al lavoro e per tornare a casa. Sono di..."
"Lo so, lo so, lei va e viene e mi ha notato, prima ancora di vedermi. E così si è chiesta cosa facesse 'sto matto sempre seduto su questa panchina con un fiore in mano, a qualunque ora sempre lì. Giusto?" dice lui trasmettendo cordialità a dispetto di quell'apparente voglia di liquidare le sue aspettative.
Lei annuisce, come una ragazzina al primo appuntamento dove qualcuno le suggerisce le battute. Ma si riprende, acquista il piglio giusto, cerca di riprendere il controllo.
"Sì, tutto vero. E comunque non credo lei sia matto" dice sicura, sostenendo lo sguardo di lui fattosi d'un tratto ancora più pesante da sostenere.
Lui lascia che la testa ciondoli stanca quasi fin tra le ginocchia. Fa roteare il fiore tra le sue mani, lo guarda, sospira. La ragazza ha qualcosa di diverso dalle altre, ma nonsa dire cosa.
"Sono curiosa di sapere perchè è sempre qui, su questa panchina. Sembra quasi che stia...aspettando ecco. Ma chi, mi domando, è questa la vera domanda. Mia madre me lo ha sempre detto che la mia curiosità alle volte era invasiva e inopportuna ma sa, me la sono portata dietro e ne ho fatto una professione" dice ancora lei mostrando ancora i denti in un disarmante sorriso.
Lui si rialza per guardarla ancora, con ancora più attenzione di prima. Qualcosa sta cedendo dentro di lui. E' un attimo, lo riconosce a volo.
"Se tardi a trovarmi, insisti. Se non ci sono in nessun posto, cerca in un altro, perchè io sono seduto da una qualche parte, ad aspettare te..." declama lui con una perfetta interpretazione ma lei lo interrompe approfittando di una sua pausa impercettibile.
"...e se non mi trovi piú, in fondo ai tuoi occhi, allora vuol dire che sono dentro di te..." continua e termina lei scemando la voce come se ad un tratto tutto avesse preso un senso e si fosse diradata la nebbia che avvolgeva una casa sperduta.
"Questo è Walt Whitman..." annuncia lei ancora più emozionata in maniera aliena.
Lui annuisce senza smettere di far roteare il fiore. Afferra il cappello e si alza. Lei lo segue con lo sguardo, d'un tratto come inchiodata a quella panchina di marmo consunta dal tempo. E' un tipo alto, deve guardarlo dal basso per vederne il volto. Lui le porge il fiore. Lei è completamente in ambasce, quasi immobilizzata ma allunga la mano e prende il fiore per il gambo vellutato. Lui accenna un inchino in un gesto teatrale. Sorridendo, dice:"Credo sia giunto il momento di andare, arrivederci."
Lei lo vede voltarsi,calcarsiil cappello in testa e incedere in mezzo alla folla, senza scomporsi nè urtare nessuno, come un pesce perfettamente a suo agio nel nuotare in mezzo a quella corrente.
E la luce diviene ancora più forte, riempiendo lo spazio enorme della stazione, cancellando ogni ombra, stanando il buio degli anfratti affinchè tutto, ma veramente tutto sia chiaro. Come lo è per lei adesso, sebbene confusa e felice, d'un tratto, senza motivo. E sorridente, il volto rigato da lacrime spontanee e dolci, aperta e gioiosa di fronte a quel muro di luce calda e avvolgente. Mentre lui è scomparso sul fondo del palcoscenico della stazione, in una rappresentazione beffarda, reale e oltre.

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SanV#1
spedito da: Andrea
Data: venerdì, 14 febbraio 2014 - ore 20:46


"Andiamo all'Autogrill, è là che voglio andare" disse lei, appena entrata in macchina, mentre fissava il paesaggio dorato delle colline davanti a sè, con quel suo profilo soffice eppure fiero.
"Come scusa?" chiese lui, al solito rapito e succube di lei, per ogni espressione e parola e gesto fatto.
Lei si girò, i suoi capelli lisci e rapiti dalla gravità che le incorniciavano quel viso così delicato, una calamita di intenti e soprusi alla realtà dei fatti da parte dell'immaginazione. E sorrise, che era il gesto più disonesto che potesse fare, compiuto con la solita ingenuità e naturalezza che come sempre gli strappava via un po' di sè, a piccoli pezzi, per poi non lasciare più niente in un giorno lontano.
Lui mise in moto, disse:"Ok" e tentò di rispondere a quel sorriso senza peraltro insidiarne il primato.
Guidarono senza parlare molto, poche chiacchiere e l'aria di singolarità che aleggiava là in mezzo, tra loro, in quell'abitacolo, per quella richiesta strana, come altre che l'avevano colpito di lei, ancora una volta a non banalizzare niente, neanche quel giorno di metà febbraio che, per ragioni ai più ignote, era divenuto chissà quando, celebrazione del sentimento supremo, quello che tra loro non era ancora e mai sarebbe stato davvero, fino in fondo.
Parcheggiarono in quello spazio di catrame che lui frequentava per lavoro così spesso e che adesso invece diventava una specie apocrifa di tappeto verso un pezzo di tempo che sarebbe stato di felicità, pura e a gocce, emozioni che sarebbero evaporate nel futuro e avrebbero reso il suo cuore arido e senza gioia, come la roccia di un deserto dimenticato.
Lei, al solito, dava l'impressione di galleggiare nell'aria e non di camminare davvero, come se le facezie terrene fossero al di là del suo interesse, in quella perenna sospensione che non avrebbe costituito solide fondamenta. Eppure catturava, prendeva come un uncino nelle carni, conficcato così in fondo che faceva un male cane cercare di estrarlo. Così lui la seguì, in mezzo agli scaffali illuminati con quella luce al neon fredda e anonima, mentre il suo incedere cercava di riscaldare l'aria. Lei osservava distrattamente confezioni di biscotti e dolciumi e cioccolate, alternando sorrisi persi chissà dove a rapidi gesti con le dita come se volesse afferrare qualcosa senza mai prendere davvero. La signora dietro la cassa li osservava, piatta come chi non ha più nulla da chiedere a nessuno, nella sua casacca beige e rossa, un'accoppiata di colori assolutamente priva di ogni memoria.
"Allora, che ti prendo?" chiese lui più che altro per sentire il suono della sua voce, annegata nel troppo silenzio dei suoi pensieri di una gloria effimera che l'avrebbe beffato con una cattiveria ingiustificata.
"Non saprei..." disse lei, "...un panino, una coca, un caffè..., non lo so, tu che dici?"
Fece spallucce, tutto andava bene, bastava orbitare nella sua sfera. Disse:"Ok, ci penso io" e andò verso il bancone ad ordinare. Cercò di non perdere il contatto visivo anche mentre parlò con la tipa della cassa e ordinò i panini e le coche e il caffè. La paura era quella di vederla scomparire da un momento all'altro, in maniera infantile e ingiustificata. Ma la debolezza dell'uomo sta proprio nel non saper prevedere l'assurdo.
Così mangiarono mentre qualche neon ronzava e le luci sembravano diventare sempre più itteriche. Fuori il buio era calato come un drappo, nel quotidiano esercizio di celare chissà quali nefandezze ma loro erano concreti, potenti, come una stella di neutroni, densi da catturare qualunque forza ed energia.
Lei sorrideva, come sempre, per dettare il ritmo e a lui bastava, perchè il percorso era in piedi da tempo ormai, eppure lui non smetteva di imparare emozioni, decollare verso spazi nuovi, tempi dilatati verso un'invincibilità che l'avrebbe condannato nel futuro ad una coerenza che nulla aveva a che fare con ciò che stava accadendo quella sera.
"Dai andiamo" disse lei indicando la porta con la testa, lasciando il panino e la coca a metà.
Lui annuì, disse:"Va bene" e lasciò anche lui cibo e bevande sul tavolino.
Uscirono fuori, contro il muro della notte, forti e allo stesso tempo fragili come opere di cristallo create da un Dio artigiano e distratto. Lui si mise le mani in tasca come ogni volta che le avrebbe voluto utilizzare per altro. Lei invece si avvolse nel suo scialle enorme col quale andava girando perchè, diceva, odiava giacconi e similari. Si accese la sua sigaretta, sbuffando fumo in equilibrio sul bordo tagliente del destino mentre un vento freddo soffiava per schiaffeggiare i volti e le storie. Ma lui assorbiva e fissava lei, che ancora non aveva neanche provato un abbraccio come si deve, figuriamoci un bacio. Quello sarebbe arrivato molto più in là, in un futuro che li avrebbe visti diversi e distolti da tutto, come pedine di una scacchiera. E le luci della montagna ardevano in lontananza come fuochi fatui.
L'amore gioca con le vite degli esseri umani e usa, in combutta spesso disonesta e cattiva, il destino e le ambizioni come manovali di un gioco che non si riesce proprio a capire perchè debba essere perpetrato con tale sistematicità. Poi però, qualcuno quele partite le gioca bene e le vince e allora chi non sa stare in campo non può prendersela con nessuno se non con se stesso. Questo è il mio primo omaggio per questa celebrazione di cui prendo solo lo spunto positivo e assolutamente non banalizzato, così come si potrebbe fare a Natale per l'amore e il rispetto tra esseri umani. Un modo per fermarci e riflettere, come sempre, una volta in più e lasciare che la fantasia ci sorregga, in questo andare spesso distratto e senza una vera e propria meta.

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Addio al bus 142 dove morì McCandless
spedito da: Andrea
Data: domenica, 2 febbraio 2014 - ore 12:44


Vogliono spostarlo a Healy, sulla George Parks HWY, in elicottero, toglierlo da lì il bus perchè attira troppa gente inesperta che finisce male, nel tentativo di guadare i torrenti che diventano artigli di morte lungo lo Stampede Trail. Non è stata la mia Alaska, io deviai all'interno, sulla Denali, lasciando la George P. HWY all'altezza di Cantwell, perchè volevo solitudine, ancor più di quella possibile in un territorio come quello, lontano dai turisti e dalle carovane a caccia di orsi e natura selvaggia da dietro i finestrini. Ero lontano chilometri da Healy mentre risalivo verso nord la Richardson HWY, sul versante est, tagliando la latitudine della piccola cittadina del Denali park. Eppure mi fermai, al Delta Junction, per sentire il vento che portava sensazioni trascese da ogni significato, come m'ero abituato in quel mese passato; cercavo di percepire qualcosa, lo spirito che stava soffiando in quei giorni su quelle terre che mi accompagnavano mentre mi inoltravo sempre di più nel nulla. McCandless era ormai vento nel vento, proiettato nella sua stessa leggenda, un'incarnazione di un concetto primitivo come quello della libertà assoluta, l'insegnamento folle che aveva lasciato in eredità, la parabola sull'essere umano e le sue contraddizioni irrisolte, il mito del rapporto con la madre terra, qualcosa di abominevole nel tentativo di contenerlo davvero dentro un solo, piccolo, essere umano. Eppure, mentre i venti di sud est soffiavano freddi alle mie spalle, coadiuvando il mio andare, sapevo che lui mi guardava, che tutta quella sofferenza non era stata prodotta invano, che sebbene non sarei stato redento, per lo meno avrei fatto mio un pizzico di quel senso assoluto e tentato di migliorare me stesso e gli altri.
Oggi, mentre leggo di queste cronache "turistiche" e mi confronto con il quotidiano, mi verrebbe da dire a Christopher che non ho fatto un bel lavoro da quando lasciai le terre che lo abbracciarono per sempre per tornare nel mio "futuro certo" che lui stesso aborriva come "devastante per l'animo avventuroso". Questo non vuol dire che quel mese dell'agosto 2010 non sia servito a nulla ma sicuramente l'insegnamento del ragazzo avrebbe meritato di più da parte del sottoscritto. Sono stato lì, ho sentito il vento e la pioggia e il freddo cercare di ostacolare il mio obiettivo, sono arrivato dove volevo, attraversando tutto il territorio, cercando l'essenza di quello spirito conservato così gelosamente dalla madre terra che aveva voluto ammaliarmi con il richiamo dell'ultima frontiera al quale non poter resistere. Eppure non ho saputo davvero fare il salto, posizionarmi a modo nel caos e scegliere la strada giusta. Sempre incerto ai crocicchi, tutto il contrario di come ero stato sulle piste battute del bush. Perdonami Chris, dico davvero, proverò a far meglio sperando che tu abbia trovato nell'oblio la pace e la serenità che cercavi.

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